-
Condividi
A cura di Francesca Panseri
Tra le grandi amiche di Peggy Guggenheim figura Djuna Barnes (1892–1982). Conosciutesi all’inizio degli anni venti del Novecento tramite Laurence Vail, la loro amicizia dura tutta la vita. Erano in Inghilterra, nella tenuta di Hayford Hall, quando, come Peggy ricorda nella sua autobiografia:
Djuna stava scrivendo Nightwood. Restava in casa tutto il giorno, tranne quei dieci minuti che dedicava alla passeggiata quotidiana nel giardino delle rose portandomene sempre una. Emily [Coleman] aveva minacciato di bruciare Nightwood se Djuna avesse riferito qualcosa che le aveva confidato per errore: per questo Djuna aveva paura di abbandonare la casa. Sentiva che era necessario sorvegliare il manoscritto.
Peggy Guggenheim, Una vita per l’arte, Rizzoli, Milano 2003, p. 131.
Chi è dunque Djuna Barnes?
Barnes è l’autrice di Nightwood (1936; Bosco di notte, 1962; La foresta della notte, 1983), capolavoro narrativo del modernismo, considerato dalla critica letteraria come uno dei romanzi più influenti del XX secolo.
Barnes nasce a Cornwall-on-Hudson, nello stato di New York negli Stati Uniti, nel 1892 e compie il proprio apprendistato di scrittrice a New York. Lavora come giornalista e illustratrice per varie riviste della città, tra cui “Smart Set” e “Vanity Fair”. Si cimenta nella poesia e nella drammaturgia e nel 1915 pubblica la sua prima opera, The Book of Repulsive Women: 8 Rhythms and 5 Drawings, grazie alla quale si fa notare negli ambienti letterari statunitensi d’avanguardia. Nel 1921, come tanti altri scrittori e artisti americani prima e dopo di lei, lascia New York alla volta di Parigi, dove viene attratta nell’orbita di James Joyce e di Gertrude Stein. Nella capitale francese si compie, nell’arco di un ventennio, la sua parabola di donna, di scrittrice e di artista. Si innamora perdutamente della scultrice statunitense Thelma Wood, ma la donna le è infedele e la rottura della loro relazione la condurrà alla depressione e all’abuso di alcool. Il ritorno negli Stati Uniti, incalzato dagli eventi bellici degli anni quaranta, segnerà la fine della sua vita pubblica e della sua dirompente attività letteraria. Questo isolamento auto-imposto e la contrarietà che dimostra verso la ristampa delle proprie opere, impedirà un vero apprezzamento del suo genio.
La produzione parigina è esigua, ma riesce a catturare e a restituire al lettore, con uno sguardo inedito, femminile, gli umori, le attitudini e le inquietudini di una stagione dell’avanguardia europea, tanto fervida quanto dissacrante. Sono quattro le opere che dà alle stampe: A Book (1923; La passione, 1994), Ladies Almanack (1928; Almanacco per signore, 2014), Ryder (1928; Ryder, 1989) e Nightwood. Per ognuno di questi lavori trae dall’ambiente bohémien che la circonda vicende e personaggi, trasfigurandoli, evocandoli come sogni o incubi, esorcizzandoli in parole, ritmi e immagini. Il suo immaginario poetico è chiaroscurale, potente, complesso, e si traduce in uno stile poliedrico che attinge a tutti quei generi letterari in cui ebbe modo di cimentarsi nel corso della vita.
Il primo romanzo, Ryder, che narra la storia di un uomo che rovina la vita alle donne che ama, si rivela un’opera incisiva nel panorama letterario dell’epoca, non solo per il coraggio con cui affonda nelle più scabrose manifestazioni della fallibilità umana, ma anche per lo sperimentalismo strutturale e stilistico. Ryder presenta, infatti, una sequenza di capitoli non cronologici, una giostra di stili messi alla berlina, quello biblico, quello di Geoffrey Chaucer, del romanzo epistolare e della letteratura mistica.
Sunto e apice della sua produzione è tuttavia Nightwood, pubblicato con un’introduzione elogiativa di T. S. Eliot. L’opera, nella quale è adombrata la storia d’amore con Thelma Wood, narra le vicende di Robin, una donna che dopo aver lasciato il marito intrattiene relazioni con altre donne, tra cui Nora, che tradisce e abbandona. Al dottor O’ Connor, figura ambigua in cerca della propria identità sessuale, è affidato il compito di consolare le pretendenti respinte. Non c’è niente nell’opera che non sia radicale: la storia, un amore omosessuale femminile; la struttura narrativa, vertiginosa e a tratti incomprensibile, con soluzioni rubate alla poesia, alle arti visive, al dramma, alla musica; lo stile, elisabettiano di base, ma con innesti ulteriori, come quello surrealista; lo humor nero, combinazione tra tragedia e satira. Barnes prende la vita e il linguaggio e li costringe in un’operazione che dimostra che la verità, forse, non può essere il risultato del loro incontro forzato, ma la letteratura sì, perché la sua natura è visionaria e simbolica.