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A cura di Alessandra Squizzato, Ricercatrice, Museologia e Critica artistica e del restauro, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Un sottile filo rosso sembra congiungere la vita e le passioni delle due più eccentriche collezioniste statunitensi dell’era moderna, Isabella Steward Gardner (1840–1924) e Peggy Guggenheim (1898–1979): entrambe decise a fare dell’arte il perno della propria esistenza, innamorate di Venezia eletta quale seconda patria, “condivisero” l’insegnamento del celebre Bernard Berenson (1865–1959), autorità assoluta nel campo degli studi storico artistici tra Otto e Novecento, e profondo innovatore del metodo del conoscitore. Per la prima fu il grande suggeritore di Fenway Court e rinvenitore di quei tesori rinascimentali che, strappati all’Italia durante molti viaggi, andarono ad adornare la residenza bostoniana. La seconda ne divenne, da giovane, accanita lettrice, quando raccolse la sfida di un amico a comprendere i nodi della critica berensoniana, come lei stessa ricorda:
Comprai e digerii immediatamente sette volumi di quel grande critico e da allora in poi cercai sempre i sette punti di Berenson: quando in un quadro riuscivo a trovare i famosi ‘valori tattili’ non stavo più nella pelle dall'emozione.
Peggy Guggenheim, Una vita per l'arte, Rizzoli, Milano 2003, p. 38.
Basta il nome di Berenson per suggerire un universo di competenze e una scienza dell’arte quasi leggendaria che ne fecero un campione indiscusso della connoisseurship europea fino al primo quarto del Novecento. Queste qualità, unite alle divagazioni estetizzanti, agli elementi letterari, decadenti e raffinati, cosi caratteristici delle sue pagine e intrinseci anche alla sua personalità, attrassero attorno a lui, come a una calamita, un giro di ammiratori e appassionati fin dagli anni degli studi giovanili a Boston e ad Harvard: tra essi spiccano, insieme a Edward Perry Warren, i nomi, appunto, di Jack Gardner e della moglie Isabella.
Il grande critico era del resto piuttosto consapevole del suo straordinario talento, come del suo essersi posto all’inizio di una nuova professionalità. Lo rivelano, tra le altre cose, anche alcune righe del suo Sketch for a Self-Portrait (1949): “Nessuno prima di noi ha dedicato tutte le sue attività, tutta la sua vita, ad essere un intenditore. Alcuni hanno scelto questa occupazione per riposarsi dalla politica, come nel caso di Morelli e Minghetti; altri perché erano funzionari di musei; altri ancora perché insegnavano storia dell’arte. Noi siamo i primi a non avere idea, né ambizione, né attesa di una ricompensa. Ci consacreremo allo studio per arrivare a distinguere le opere autentiche di un pittore italiano del Quattro e del Cinquecento da quelle che gli vengono comunemente attribuite. […] Non prenderemo riposo finché non saremo sicuri che ogni Lotto è un Lotto, ogni Cariani un Cariani, ogni Previtali un Previtali, ogni Santa Croce un Santa Croce”. (Berenson, Abbozzo per un autoritratto, Electa, Firenze 1949, p. 85).
Il vero oggetto degli interessi di Berenson e delle sue accanite e capillari ricerche sul territorio fu, insieme ai pittori Primitivi, il Rinascimento, in particolare quello italiano, al quale dedicò il suo primo lavoro, The Venetian Painters of the Renaissance with an Index to their Works pubblicato a Londra e a New York nel 1894. Seguirono – oltre all’innovativa monografia su Lorenzo Lotto – nel 1896 Fiorentine Painters of the Renaissance, nel 1897 The Central Italian Painters of the Renaissance, e infine, a dieci anni di distanza, The North Italian Painters of the Renaissance. Il successo davvero mondiale di questi libri, editi in piccolo formato, inizialmente composti solo da un saggio e da un elenco di opere, fu dovuto, oltre al fatto di essere una sorta di vademecum maneggevole per i viaggiatori, al valore che Berenson mostrava di attribuire alle opere d’arte, desiderando comunicarne a pieno la godibilità, la capacità che secondo lui possedevano, quasi fossero organismi viventi, di trasmettere allo spettatore vitalità e piacevolezza estetica. Egli così descriveva la sua teoria della tangibilità, che molto dovette colpire, come abbiamo visto, anche Guggenheim: “La pittura è un’arte che cerca d’offrire una convincente impressione di realtà estetica servendosi soltanto di due dimensioni. Il pittore deve insomma ottenere consapevolmente quello che tutti facciamo inconsciamente: deve costruire la terza dimensione … occorre prima di tutto che egli sia capace di eccitare il senso tattile”. (Berenson, I pittori italiani del Rinascimento, Sansoni, Firenze 1959, p. 65). L’interesse che lo studioso dimostrò anche in seguito per l’aspetto psicologico della creazione artistica, la sua fede nell’empatia tra l’oggetto e le sensazioni sperimentate dal fruitore – con ogni probabilità suggeriti dall’incontro con il filosofo William James – non furono però in lui mai disgiunti dallo sguardo freddo e lucido proprio del conoscitore, il cui occhio esperto deve anzitutto saper distinguere le maniere e accertare l’autografia di un’opera.
Guggenheim dovette fare tesoro, come ricorda nelle sue memorie, di molti degli insegnamenti del grande conoscitore fiorentino d’adozione, anche se i due rimasero sempre lontani nelle rispettive preferenze: è noto che quando nel 1948 Berenson visitò la Biennale veneziana, la prima postbellica ove anche Guggenheim esponeva la propria collezione privata d’avanguardia, nell’allestimento suggestivo di Carlo Scarpa, l’anziano critico manifestò il suo completo dissenso per un’arte davvero troppo al di là dei suoi canoni.