-
Condividi
A cura di Francesca Panseri
Peggy Guggenheim conosce Samuel Beckett (1906–1989) a Parigi durante il Natale del 1937. Un uomo alto e ossuto, molto cortese e un poco buffo, indolente ma capace di una straordinaria intensità di pensiero. Su iniziativa di Beckett, i due avviano una relazione che durerà, tra alti e bassi, poco più di un anno.
Fui felice di essere con Beckett, che era davvero un compagno ideale, perché amava le cose belle, ed era un piacere visitare i musei insieme a lui.
Peggy Guggenheim, Una vita per l’arte, Rizzoli, Milano 2003, p. 191.
Chi è dunque Samuel Beckett?
Quando si incontrano, Beckett è agli inizi della propria carriera di scrittore, una carriera che avrebbe segnato la storia della letteratura del Novecento e lo avrebbe portato a ricevere il premio Nobel per la letteratura nel 1969. Irlandese d’origine, trascorre quasi tutta la vita in Francia creando opere teatrali, romanzi, poesie e saggi critici. È un irrequieto, un appassionato ammiratore di James Joyce, un lettore enciclopedico. Ama il padre, le donne e l’alcool, ma soffre per il difficile rapporto con la madre, una protestante irlandese severa e rigorosa, che non approva la sua quotidianità disordinata. Nel romanzo d’esordio, Murphy (1938), e nella prima prova teatrale, Eleutheria (1947), sottopone all’irrisione parodica rispettivamente le tecniche narrative del romanzo ottocentesco e le convenzioni naturalistiche del teatro borghese. Gli è fin da subito chiaro che la modernità necessita di una nuova ʻformaʼ attraverso cui essere veicolata. In questa fase di sperimentazione in lingua inglese scrive diversi componimenti poetici, poi confluiti nella raccolta Echo’s Bones and Other Precipitates (1935; Ossa d’Eco, 1973), e un acutissimo saggio su Marcel Proust. Alla fine degli anni trenta ritrova una vecchia conoscenza, Suzanne Deschevaux-Dumesnil, con cui alla Resistenza francese e che diventerà la sua compagna di vita.
Nel 1945 imprime una svolta alla propria scrittura. Decide, infatti, di abbandonare la lingua inglese “per allontanarsi dall’esercizio del virtuosismo linguistico, dall’invenzione intellettualistica e barocca, dal gioco di parole più sofisticato” nei quali si è cimentato fino a quel momento, sotto l’influsso di Joyce (Samuel Beckett, Teatro, P. Bertinetti, a cura di, Einaudi, Torino 2002, p. XV). Stabilisce che la lingua francese è più consona ai suoi ʻmaturatiʼ intenti narrativi per logicità, rigore e chiarezza. Avvia così un lavoro di depurazione, distillazione, cesellatura del linguaggio che lo porterà a elaborare, soprattutto in ambito teatrale, testi nitidi, essenziali, in cui le parole hanno “un peso aureo, una densità via via più arcana e intraducibile” (Samuel Beckett, Teatro completo, C. Fruttero e P. Bertinetti, a cura di, Einaudi, Torino 1994, p. XIV). Appartengono a questo periodo le sue opere maggiori, la trilogia narrativa costituita da Molloy (1951; ed. italiana 1957), Malone meurt (1951; Malone muore, 1960) e L’innommable (1953; L’innominabile, 1960), e i drammi teatrali En attendant Godot (1952; Aspettando Godot, 1956) e Fin de partie (1957; Finale di partita 1969).
Ad attraversarle è il tema che caratterizza la sua intera opera, la tragedia dell’esistenza, l’oscurità della condizione umana, l’assenza di senso della vita stessa. Si intuiscono echi di Leopardi e di Schopenauer. “Beckett non si preoccupa tanto dell’uomo come creatura politica e sociale quanto della sua condizione in senso metafisico. I suoi relitti umani sono generalmente isolati in uno spazio immaginario senza tempo, si torturano e si consolano a vicenda, e si pongono domande a cui non possono rispondere” (Oscar Brockett, Storia del teatro, Marsilio, Venezia 2012, p. 581). Il pessimismo di Beckett costringe a riflettere sul significato ultimo dell’esistenza, a riconsiderarlo e a non abbandonare la ricerca. Due costanti caratterizzano la sua opera: lo svelamento della finzione letteraria-teatrale, con i narratori consci dell’atto narrativo e i personaggi sulla scena dell’atto performativo; un progressivo, inesorabile e inevitabile depauperamento delle facoltà comunicative e motorie dell’umanità rappresentata.
Intorno al 1955 riprende a scrivere in inglese, lingua che da quel momento in poi impiegherà nella produzione teatrale, mentre il francese rimarrà in quella narrativa. Tra gli altri dà alle stampe per il teatro Krapp’s Last Tape (1958; L’ultimo nastro di Krapp 1969), Happy Days (1961; Giorni felici, 1969), Play (1964; Commedia, 1994), Not I (1973; Non io, 1973), That Time (1976; Quella volta, 1980), i “dramaticules” e per la narrativa, Comment c’est (1961; Come è, 1965), Le Dépeupleur (1970; Lo spopolatore, 1972), Mal vu mal dit (1981; Mal visto mal detto, 1986). Si cimenta inoltre nella realizzazione di radiodrammi, teledrammi e nella sceneggiatura di un film, dando prova di una spiccata capacità di intuizione delle esigenze testuali, sonore e ritmiche dei diversi media. In queste sue ultime opere per il teatro colpisce la scelta di far originare la pièce non da una situazione, ma da “un’immagine che ha folgorato la sua immaginazione e che lui trasferisce nella forma teatrale” (Bertinetti, 2002, p. XX). Inoltre con i “dramaticules”, neologismo beckettiano, costruisce brevi opere teatrali “intorno a un’unica immagine o situazione che brucia le sue possibilità espressive nell’arco di pochi minuti: la scena è astratta, il movimento è negato o ridotto al minimo, i personaggi nel comune senso della parola non esistono. Eppure il risultato è di alta, seppure minimale, teatralità” (Beckett, Teatro, a cura di Bertinetti, 2002, p. XXIV). Tocca qui l’apice della sua ricerca di ʻdistillazioneʼ della scrittura. Beckett continuerà a lavorare alacremente fino alla morte, sopraggiunta nel 1989.