A cura di Francesca Panseri

Nel 1942 Peggy Guggenheim e Max Ernst accolgono nella loro casa di New York John Cage (1912–1992) e sua moglie Xenia Andreyevna Kashevaroff. È una convivenza fatta di arte, musica e feste, intensa ma di breve durata. Quando infatti Cage rifiuta l'invito di Peggy a tenere un concerto nella sua galleria-museo Art of This Century, perché già impegnato con il Museum of Modern Art, la collezionista rompe i rapporti. Ma non per sempre: i due infatti si ritroveranno e si riconcilieranno.

Nel 1960 sono insieme a Venezia e in Giappone:

Lo stesso anno andai in Giappone con John Cage che era stato invitato dal Maestro dei Fiori a dare concerti in città differenti. Lo seguivo dovunque e andavo a tutti i concerti, anche se non posso dire che la sua musica mi piaccia. Con noi, come guida e traduttrice, c'era Yoko Ono, che prese anche parte ad uno dei concerti: era incredibilmente efficiente e gentile e divenimmo grandi amiche. […] Ciò che mi piacque di più fu Kyoto, ma non riuscii a vedere tutti i templi perché a John Cage non interessava fare del turismo e allo stesso tempo voleva che restassimo tutti con lui. Trascorse un intero pomeriggio a cercare una cravatta particolare che si era fatto fare in Giappone anni prima e tutto quello che riuscimmo a vedere lo vedemmo di nascosto da lui.

Peggy Guggenheim, Una vita per l'arte, Rizzoli, Milano 2003, pp. 373–374.

Yoko Ono, John Cage, Peggy Guggenheim in Giappone, 1960. Courtesy Sogetsu Foundation, Tokyo

Chi è dunque John Cage?
“Un musicista-filosofo che ha proposto una concezione del binomio arte-vita (e in generale tra attività umane e vita) chiaramente utopico [...], ma che può rappresentare per l’uomo contemporaneo un laboratorio all’interno del quale svolgere prove tecniche di salvezza”. (Giacomo Fronzi, Tra estetica e politica. La funzione sociale della musica a partire da John Cage, in “Il rasoio di Occam”, 24 maggio 2013).

John Milton Cage Jr. nasce a Los Angeles nel 1912 e studia pianoforte fin da piccolo. Diciottenne lascia il college per intraprendere un viaggio in Europa che gli farà conoscere Johann Sebastian Bach e le avanguardie artistiche, l’opera di Igor Stravinsky e soprattutto Erik Satie. Quando rientra in Califormia nel 1931 decide di dedicarsi alla musica e inizia a studiare, prima con Henry Cowell e poi con Arnold Schönberg, teorico della dodecafonia. Nel 1936 trova lavoro presso il Cornish College of the Arts, a Seattle, come compositore di brani per il balletto e avvia la propria sperimentazione sulla musica percussiva. Qualche anno più tardi, nel 1939, compone First Construction (In Metal), in cui si serve di percussioni improprie come tazzine, cerchioni di auto, contenitori di latta, e Imaginary Landscape No. 1, una delle prime opere in cui fa uso di musica registrata. Conosce il coreografo Merce Cunningham, con cui stringe un sodalizio artistico e sentimentale che durerà tutta la vita.

Nel 1940 mette a punto la tecnica del “piano preparato”, inserendo tra le corde oggetti di vario tipo che impediscono al compositore, che pure prepara lo strumento, di avere il pieno controllo del risultato finale. Si tratta di un passaggio di grande rilievo nel percorso di Cage, che attua un primo tentativo di sottrazione dell'autorialità dell'opera inserendo la variabile della casualità, e grazie al quale scuote le aspettative del pubblico, che invece di ascoltare un pianoforte viene colpito dall'irrompere sonoro di un'orchestra di percussioni. Sonatas and Interludes (1946–1949) è la sua opera più nota per “piano preparato”.

L’incontro con le filosofie orientali, soprattutto il buddismo zen, nonché una maggiore conoscenza dell’opera di Marcel Duchamp, segnano, verso la metà degli anni quaranta, una svolta nella sua produzione. La sua proposta di “esperienza musicale” è rivoluzionaria e radicale e parte da un’indagine relazionale e ambientale del rapporto tra l’uomo e tutto ciò che può udire intorno a sé. La distinzione tra suoni e rumori non è più valida, poiché tutto il percepito sonoro della vita e della città contemporanea ha una propria dignità, una propria bellezza pura, che per sprigionarsi ha bisogno di essere liberata da sovrastrutture di carattere storico, estetico, mnemonico e soprattutto emozionale. I suoni liberi sono per Cage suoni a cui non si deve chiedere niente se non di essere sé stessi, e in questa loro individualità singola ed eccezionale occupano il paesaggio sonoro come gli uomini occupano la terra e le stelle il cielo. Ma se i suoni non devono essere organizzati, non devono essere armonici, non devono comunicare, cosa resta al compositore se non creare le condizioni per l'ascolto e l’accettazione del suono del mondo: la sua è una prassi etica e politica. È quello che Cage mette in atto nella sua opera più dirompente, 4' 33" (1952). Il coperchio della tastiera che si alza, la durata, il coperchio della tastiera che si abbassa: 4' 33" è un contenitore all’interno del quale tace il suono tradizionalmente inteso e si rivela un ambiente sonoro nuovo e ricco, quello della realtà.

Sviluppando le potenzialità antidogmatiche e anarchiche di 4' 33", negli anni seguenti Cage si cimenta in una serie di opere d’arte totale basate sulla comunione tra musica, danza, poesia, teatro, arti visive, partecipate dagli spettatori e dirette del caso. Come aveva fatto nell'ambito del sonoro, rinuncia al controllo, all’autorialità, alla determinazione, a favore di una manifestazione spontanea e imprevedibile della creatività di tutti gli agenti coinvolti. Anche nella pratica performativa, l'arte si conferma il tramite attraverso cui la vita parla di sé stessa: “Se lei separa le due, diciamo se prende questa luce [...] e la chiama Arte ... allora ha solo questa luce. Ma ciò che ci occorre è farci strada nel buio perché è lì che sono le nostre vite [...] : nell’oscurità, o, come dicevano i cristiani, ʻnella notte profonda dell’animaʼ. È in queste situazioni che l’Arte deve agire e allora non sarà soltanto Arte ma sarà anche utile alle nostre vite”. (John Cage, Conversazioni con Roger Reynolds, in Gabriele Bonomo, Giuseppe Furghieri, a cura di, John Cage, Marcos Y Marcos, Milano 1998, pp. 146–147).


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