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Estratto da: Christa Clark, “Fantastici artefatti”: Peggy Guggenheim e l’arte africana negli anni cinquanta, in Vivien Greene, a cura di, Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim, Solomon R. Guggenheim Foundation con Marsilio Editori, Venezia 2020, pp. 37-38, 41.
Negli anni cinquanta l’arte africana conquista anche il grande pubblico. Nel 1959 [Julius] Carlebach osserva che “l’interesse per l’arte primitiva è andato oltre la semplice manciata di collezionisti fino a includere a pari modo ricchi e poveri”, l’arte africana non solo è di moda nell’arredamento d’interni, ma è anche disponibile a prezzi accessibili (13). In effetti, solo sei mesi prima la rivista del “New York Times” pubblica Living with Sculpture, un servizio sulla collezione d’arte non occidentale esposta in bella mostra nell’appartamento newyorkese di Eliot Elisofon, il fotografo di “Life”. L’articolo è incentrato in particolare sulla recente moda dell’arte africana, e insiste sulle potenzialità offerte da maschere e figure scultoree nell’arredo della casa. Accompagna le illustrazioni suggerendo “molte idee per espor[le] in modo spettacolare”, come soprammobili per il tavolo o su piedistalli e mensole a muro. “Oggi, la scultura di pregio è disponibile a prezzi davvero ragionevoli”, si spiega ai lettori, mostrando, nelle illustrazioni, esempi di “pezzi tipici poco costosi” d’arte non occidentale, tutti in vendita per meno di cento dollari, molti dei quali sono sculture africane della galleria di Carlebach (14). L’offerta di Carlebach raggiunge un pubblico ancora più vasto grazie alla visibilità ricevuta dal film Una strega in paradiso (Bell, Book and Candle), commedia romantica del 1958 interpretata da James Stewart e Kim Novak, a cui Elisofon lavora come consulente tecnico del colore. Le maschere e le figure di Carlebach non sono solo arredi scenici, ma elementi essenziali del personaggio interpretato da Novak, una strega dei nostri giorni che possiede una galleria d’arte “primitiva” nell’anticonformista Greenwich Village (15). La storica dell’arte Susan Vogel nota come il film esprima “l’associazione esistente nella cultura popolare degli anni cinquanta tra arte africana e sesso, magia, bonghi e avanguardia estrema”, una visione certo condivisa dall’avventurosa Guggenheim alla ricerca di un ambito collezionistico nuovo e più accessibile (16).
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Le relazioni umane sono alla base del commercio dell’arte in Africa. In seguito ai vari movimenti d’indipendenza a fianco degli stranieri, che già attraversano il continente per raccogliere oggetti da fornire a galleristi e collezionisti privati in Europa e negli Stati Uniti, emergono con forza sul mercato i mercanti africani, che creano estesi canali di distribuzione dai villaggi rurali ai nuovi centri urbani dell’Africa, in particolare a Dakar (Senegal), Bamako (Mali), Abidjan (Costa d’Avorio), Lagos (Nigeria) e Kinshasa (Congo), fino agli acquirenti internazionali come Carlebach (29). Molti mercanti europei, come [Franco] Monti, in questo stesso periodo si costruiscono una reputazione nel mondo dell’arte grazie alla raccolta sul campo. Le controparti africane vengono invece sbrigativamente definite “corrieri” e i loro nomi sono raramente legati agli oggetti che procurano (30). Inoltre, a prescindere dalla provenienza degli oggetti, la gran parte dei collezionisti occidentali rimane avulsa e ignara non solo del significato e del contesto delle opere acquistate, ma anche delle circostanze e dei fattori alla base della loro circolazione. Come collezionista, Guggenheim non è diversa: le sculture africane che fa dialogare con le opere moderniste occidentali restano ben lontane dalle loro origini, sia dal punto di vista geografico che concettuale (31).
13. Rita Reif, Gallery Here Will Offer Talks on Primitive Art, “The New York Times”, 7 aprile 1957, p. 37
14. Cynthia Kellogg, Living with Sculpture, “The New York Times”, 5 ottobre 1958, p. SM48. Per una rassegna sull’uso dell’arte non occidentale nell’arredamento d’interni in Francia nello stesso periodo, si veda Daniel J. Sherman, Post-Colonial Chic: Fantasies of the French Interior, 1957–1962, “Art History” 27, n. 5 (novembre 2004), pp. 770 – 781, e il capitolo Primitive Accumulation in una sua pubblicazione più recente, French Primitivism and the Ends of Empire, 1945–1975, University of Chicago Press, Chicago 2011.
15. Si veda Katherine E. Flach, “Eliot Elisofon: Bringing African Art to Life”, tesi di dottorato, Case Western Reserve University, 2015, pp. 203–212.
16. Susan Vogel, Whither African Art? Emerging Scholarship at the End of an Age, “African Arts” 38, n. 4 (inverno 2005), p. 17.
29. Christraud Geary e Stephanie Xatart, a cura di, Material Journeys: Collecting African and Oceanic Art, 1945–2000, Museum of Fine Arts, Boston 2007 , p. 19. Si veda inoltre Sherman, Post-Colonial Chic, p. 777.
30. Geary e Xatart, Material Journeys, pp. 19, 69. Si veda inoltre Silvia Forni e Christopher B. Steiner, The African Art Market as Ego-System, “Critical Interventions” 12, n. 1 (2018), pp. 1–7.
31. Guggenheim ricorda la serata trascorsa nel 1941 con un giovane Hubert Maga, futuro primo Presidente del Dahomey (ora Repubblica del Benin), mentre è in vacanza sulle sponde del lago di Annecy, in Francia, ma nelle sue memorie l’Africa non merita neanche un cenno.