Estratto da: Ellen McBreen, Migrating Objects: dall’artefice al museo, in Vivien Greene, a cura di, Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim, Solomon R. Guggenheim Foundation con Marsilio Editori, Venezia 2020, pp. 30-32.

“Il concetto disumanizzante di arte degenerata ricompare nel frontespizio del volume pubblicato da Peggy Guggenheim nel 1942, Art of This Century, in una citazione dal discorso pronunciato da Adolf Hitler cinque anni prima a Monaco, all’inaugurazione della “Grosse Deutsche Kunstausstellung”, l’antitesi ariana dei “primitivi” derisi nell’esposizione paranoide “Entartete Kunst” (34). Tra i vari concetti esposti, Hitler sostiene che l’arte moderna sia solo un fenomeno passeggero, mentre ciò di cui la nazione ha bisogno è un’arte duratura che affondi le radici nell’unità razziale. Il testo contiene frasi particolarmente sconvolgenti, in cui Hitler collega l’arte non realistica all’inferiorità fisica, suggerendo che gli artisti “infelici” che vedono “cieli verdi e mari viola” debbano essere consegnati al “Ministero dell’Interno, che si occupa di sterilizzare i malati mentali”, o al tribunale penale, per proteggere le generazioni future dal “loro sventurato lascito”. Art of This Century, pubblicato durante la guerra, è una cronaca del conflitto: Guggenheim inizia a progettarne la pubblicazione nel 1940, quando soggiorna a Grenoble, dove Pierre-Andrè Farcy, il curatore che dirige il museo cittadino e che sarà arrestato dalla Gestapo nel 1943, protegge la sua collezione di arte potenzialmente “degenerata”.

Questa pubblicazione del 1942, pur non avendo a che fare col successivo interesse della collezionista per l’arte africana, oceanica e precolombiana, ci ricorda quale sia la posta in gioco nel creare collegamenti transculturali e nel lasciare, anche solo con l’immaginazione, i confini dell’Occidente. Nel volume è pubblicata anche l’opera di Léger Uomini in città (Les Hommes dans la ville, 1919), che diventerà centrale nei racconti che la collezionista e altri faranno sulla nascita della sua collezione europea durante l’inverno del 1939–1940, quando Guggenheim è a Parigi: “Il giorno in cui Hitler fece il suo ingresso in Norvegia, entrai nello studio di Léger e comprai uno splendido quadro del 1919 per mille dollari. [Léger] non digerì mai il fatto che pensassi a comprare quadri proprio quel giorno . . .” (35). L’episodio crea l’impressione piuttosto duratura di una collezionista allegramente ignara della catastrofe incombente o, peggio ancora, approfittatrice degli artisti in un momento disperato (36). Ma oggigiorno la lettura della citazione di Hitler rende difficile accettare l’idea di una Guggenheim indifferente e incurante della minaccia del fascismo, sia in quanto ebrea sia come sostenitrice dell’apertura internazionale del modernismo, che rifuggiva dall’idea di uno stato-nazione definito dalla razza o dalla religione.

In quest’ottica la ricontestualizzazione di oggetti non occidentali avvenuta nel secondo dopoguerra nelle sale di Palazzo Venier dei Leoni, dove ad esempio la geometria elegante delle figure di Léger emerge dalla base di una maschera Senufo a elmo, assume una connotazione diversa, potenzialmente antifascista. Vale la pena ricordare come anche la collezione in sé sia considerata troppo “degenerata” da alcuni funzionari che, a Torino, nel 1948 revocano l’invito a esporla (37). Al giorno d’oggi, invece, è probabile che gli oggetti africani, oceanici e precolombiani della collezione vengano considerati come simboli frutto di un’appropriazione, emblemi della vita cosmopolita di Peggy Guggenheim e, in ultima analisi, vestigia di un’epoca colonialista (38). La passione della collezionista per il primitivismo modernista riflette una concezione d’élite del mondo: le sue istallazioni spontanee e sperimentali riflettono in modo acritico una cultura dominante che si appropria di un’altra, come un’estensione del suo essere giramondo. La possibilità di migrare a suo piacimento, portando con sé un nucleo di oggetti provenienti da tutto il mondo, è uno dei molti privilegi socio-economici di cui gode, tranne nel caso di un terribile episodio, quando, a quanto pare, riesce a sfuggire a un rastrellamento di ebrei a Marsiglia. In alcuni casi, tuttavia, queste giustapposizioni sanno ancora portare il pubblico del XXI secolo a prendere atto della relatività dei propri valori culturali, come un tempo speravano di fare i surrealisti. Il linguaggio usato da Ernst, Matta o Picasso è altrettanto codificato e legato al contesto di quello impiegato da un artista della Guinea o da un intagliatore della Nuova Irlanda, basato cioè sulle esperienze di vita dei fruitori, e può essere altrettanto disorientante. In tale contesto l’impatto potenziale degli oggetti dipende dal nostro riconoscerne la profonda indipendenza dalle opere dei modernisti che da essi hanno tratto spunto. Le storie scritte sul primitivismo modernista non possono più corroborare le false pretese di universalità che hanno trasformato il resto del mondo in una proiezione dell’Occidente. I visitatori che guardano a questa collezione solo come l’espressione del gusto alla moda di Peggy Guggenheim sono condannati a rimanere chiusi in questo gioco di rimandi eurocentrico e autoreferenziale”.


34. Peggy Guggenheim, a cura di, Art of This Century: Objects, Drawings, Photographs, Paintings, Sculpture, Collages 1910–1942, Art Aid Corporation, New York 1942, p. 7. Il testo di Hitler appare tra due altri di Herbert Read, consigliere di Guggenheim, che attribuisce all’assenza di libertà l’incapacità del regime fascista e di quello nazista di “ispirare grande arte”. Il discorso di Hitler è pubblicato originariamente come Der Führer eröffnet die Grosse Deutsche Kunstausstellung, 1937 in “Die Kunst im Dritten Reich” I (nn. 7–8) Monaco (luglio-agosto 1937), pp. 47–61. Guggenheim viene forse incoraggiata a includere la citazione di Hitler da una delle persone citate nella sua prefazione. Sul contributo di Breton, ad esempio, si veda Peggy Guggenheim, Una vita per l’arte. Confessioni di una donna che ha amato l’arte e gli artisti, Rizzoli, Milano 1982, p. 271.

35. Guggenheim, Una vita per l’arte, p. 228. L’acquisto del Léger avviene il 9 aprile 1940.

36. L’impressione può dipendere dal tono usato da Guggenheim. Tempo prima, quando progetta un museo d’arte moderna a Londra, Guggenheim scrive laconicamente all’amica: “Spero tornerai a vedere tutto ciò prima che Hitler lo bombardi”. La lettera scritta a Emily Coleman nell’aprile 1939 è citata da Susan Davidson, Focusing an Instinct: The Collecting of Peggy Guggenheim, in Susan Davidson, Philip Rylands, a cura di, Peggy Guggenheim & Frederick Kiesler. The Story of Art of This Century, Solomon R. Guggenheim Foundation, New York 2004, p. 57.

37. L’episodio torinese del 1948 è narrato in Mary V. Dearborn, Mistress of Modernism, Houghton Mifflin, New York 2004, p. 269. Guggenheim riporta la revoca dell’invito in toni meno politici: semplicemente, i funzionari di Torino trovavano la collezione troppo “moderna”; Una vita per l’arte, p. 382.

38. Francesco Paolo Campione considera la decontestualizzazione di questi oggetti a Venezia un “idealizza[re] la concezione del mondo e i valori di un’élite . . . col passare del tempo fanno tendenza e diventano moda”. Campione, Il paradigma della complessità: introduzione ai valori della collezione d’arte etnica di Peggy Guggenheim, in Campione, Ethnopassion. La collezione d’arte etnica di Peggy Guggenheim, Mazzotta, Milano 2008, p. 20.


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Estratto dal catalogo della mostra "Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim".